di Giamina Croazzo
In occasione della festa dei Morti celebrata dal mondo cristiano il 2 novembre, in Sicilia si è soliti ancora oggi fare regali ai bambini.
Questa tradizione affonda le radici lontano nel tempo, quando i genitori nascondevano, in alcuni punti della casa, ceste riempite soprattutto di dolci e giocattoli, ma anche di vestiti, scarpe e frutta, che al mattino presto venivano cercate dai loro figli, come veri e propri tesori. Veniva detto ai bambini che «nella notte dal 1° al 2 Novembre i morti lasciano la loro paurosa dimora, e in frotta o alla spicciolata scendono in città, a rubare ai più ricchi pasticcieri, mercanti, sarti, ecc., dolci, giocattoli, vestiti nuovi e quanto altro è in essi morti intenzione di donare a’ fanciulli loro parenti che sieno stati buoni nell’anno, che abbiano fatto per essi qualche astinenza»[1].
Armi santi, armi santi, io sugnu unu e vuatri siti tanti: mentri sugnu ‘ntra stu munnu di guai, cosi di morti mittitiminni assai[2]
recitava il bambino siciliano prima di addormentarsi. E tra le “cosi di morti” poteva trovare – e può trovare ancora oggi in alcune zone[3] – statuine antropomorfe dette pupi ri zuccuru, bambole di zucchero. Questi dolci, secondo Giuseppe Pitrè prerogativa del «basso volgo»[4], sono realizzati con zucchero e succo di limone spremuto (per ottenere un maggiore sbiancamento), fusi in pentolini di rame e poi colati in formelle di gesso in modo da rimanere vuote all’interno. La statuina raffreddata viene rifinita con un coltello e poi dipinta con colori ricavati da prodotti alimentari (il giallo dallo zafferano, il rosso dal pomodoro, l’azzurro dal miglio, il bianco dal latte e dalla farina, il bruno dal cacao, il nero dalla seppia, il verde da alcune verdure). Dopo l’asciugatura la statuetta viene “impupata” con lustrini di carta colorata incollata con della farina, zucchero a velo per decorare i bordi, carta stagnola per creare l’effetto luccichio, palline argentate; la base si ricopre con carte colorate o bianche merlettate[5]. «Grande è il loro effetto decorativo, e non di rado, oltre a servire come strenna per i fanciulli, vengono usate almeno per il tempo che resistono, come soprammobili»[6].
Tali statuine vengono dette anche pupi di cena, o puppacena, o semplicemente cena.
Secondo lo studioso di tradizioni popolari Carlo Di Franco la definizione pupaccena sarebbe palermitana e nascerebbe nel 1574, quando in occasione della visita di Enrico III a Venezia, fu organizzata una cena in cui furono servite sculture di zucchero realizzate dalla bottega dell’illustre architetto e scultore Jacopo Sansovino; le piccole opere ebbero subito il favore e lo stupore degli intervenuti. Alcuni marinai palermitani, che avevano trasportato lo zucchero in quella città, ricevettero la notizia per cui grazie a loro si poterono realizzare quei “pupi a cena”, da qui la definizione di pupaccena. Di ritorno a Palermo quei marinai diffusero la notizia presso i dolciari locali che presero a realizzare quei particolari pupi.
Antonino Uccello, il celebre raccoglitore di oggetti e tradizioni popolari, raccolse una leggenda raccontata da un dolciario di Licata (nell’agrigentino) secondo cui nella cena dei morti al tempo di Ferdinando Re delle Due Sicilie, venivano offerti questi pupi di zucchero.
Secondo Antonino Buttitta invece l’espressione puppacena avrebbe ben diverso significato ricollegandoci ad un’antichissima credenza per cui le anime dei defunti non abbandonavano le loro case e per questo andavano simbolicamente nutrite. Infatti un tempo, come spiega il Buttitta in un accurato saggio, tutti i popoli indoeuropei erano soliti tenere un banchetto funebre dopo un decesso, che in Sicilia ai tempi in cui l’autore scriveva perdurava nel cosiddetto cunsulu siciliano, mensa funebre[7], che si usava imbandire anche in altre regioni, dalle Marche alla Romagna, dal Friuli all’Abruzzo, fino in Francia e in Catalogna. L’usanza era praticata già dai romani che nelle ricorrenze dedicate ai defunti portavano alle tombe cibi e bevande e perdurò anche in seguito al disfacimento dell’Impero, tanto che Sant’Ambrogio fu costretto a vietare ai cristiani di banchettare il due di novembre sulle tombe dei martiri. Ancora: alla fine dell’Ottocento in Provenza la sera di Natale venivano lasciate le briciole della cena alle armettos; nelle Valli dei Pirenei la notte che precede il primo dell’anno si preparava un banchetto di pane e vino per le blanquettos; in Piemonte, nella vigilia del giorno dei morti, finita la cena la tavola non veniva ripulita cosicché i defunti potessero durante la notte cibarsi degli avanzi[8].
Se quanto detto può spiegare l’origine del costume di regalare dolci nel giorno dedicato al ricordo dei defunti, per chiarire il perché tali dolci abbiano preso sembianze umane il Buttitta si ricollega a due usi presso i Romani; il primo di cibarsi in determinati giorni di pani antropomorfi, chiamati maniae (da Mania, madre degli Spiriti), rappresentanti i parenti defunti, che quindi venivano mangiati in una patrofagia simbolica al fine di cibarsi evidentemente delle loro virtù (la qual cosa perdura ancora in certi popoli primitivi moderni). Il secondo è legato alle feste dedicate ai Lari (gli spiriti della casa), quando, oltre ad offrire giochi e cibi, i Romani solevano appendere sulle porte delle case bambole di lana, dette oscilla, sperando che gli spiriti, che in quel giorno si credeva errassero per il mondo in cerca di sangue per rinvigorire le loro forze, prendessero quelle offerte, graziando le persone di casa.
I soggetti delle pupe di zucchero sono stati diversissimi, alcuni di origine popolare come pescatori in barca o nell’atto di suonare, o campagnoli che danzano; dai bersaglieri ai tamburini. Altri soggetti invece, per la loro grazia, denunciano un’origine settecentesca probabilmente ispirata ai bisquits e alla porcellana di Capodimonte: dame, cavalieri e ballerine. Dall’Ottocento, con la nascita in Sicilia del teatro dei «pupi», si diffondono i paladini. Più recentemente questi dolci di zucchero hanno preso forma di cow-boys, di aerei, di automobili fino ai soggetti dei giorni nostri, come calciatori o personaggi dei cartoni animati.
La pratica di realizzare queste figure antropomorfiche accomuna la Sicilia alla città tunisina di Nabeul in cui, preparate allo stesso modo, si regalano ai bambini per il capodanno islamico, per la festa ebraica della Souôuda e per quella cattolica dei Morti. In quella occasione si organizza il “Festival des poupées en sucre de Nabeul”[9].
Questa affinità, secondo il Di Franco è da riportare ad un fatto commerciale esistendo, cioè, una via dello zucchero che attraversa il Mediterraneo, attraverso la quale i nostri marinai, partiti un secolo fa alla volta di Tunisi, tra il loro armamentario per la pesca portarono con sé l’usanza di fondere lo zucchero per farne “pupi”[10].
[1] Pitrè G., I morti, in Spettacoli e feste popolari siciliane descritte da Giuseppe Pitrè, Luigi Pedone Lauriel Editore, Palermo 1881, vol. XII, p. 394
[2] Anime sante, anime sante, io sono uno e voi siete tante: mentre sono in questo mondo di guai, portatemi tanti regali
[3] Nel 1957 l’industria delle bambole di zucchero era ancora viva a Palermo secondo quanto riportato in Cocchiara G., L’arte del popolo siciliano, Flaccovio Editore, Palermo 1957, p. 20. Nel 1976 l’usanza era ormai del tutto scomparsa nella Sicilia orientale, ad eccezione di Caltagirone in cui la produzione era ancora efficiente. Si veda Uccello A., La festa dei Morti, in Pani e dolci di Sicilia, Sellerio Editore, Palermo 1976, p. 53
[4] Pitrè G., op.cit.
[5] Per il processo produttivo delle bambole di zucchero si veda Uccello A., op. cit., pp. 53-54 e Di Franco C., Pupi ri zuccaru, in www.palermoweb.com
[6] Buttitta A., Arte e cultura nelle pupe di zucchero, in Cultura figurativa popolare in Sicilia, Flaccovio Editore, Palermo 1961, p. 147
[7] Buttitta A., op. cit., p. 136
[8] Una ricca bibliografia su queste ed altre tradizioni legate al culto dei morti è in Buttitta A., op. cit.
[9] Auteri M, Croazzo G., I pupi di zucchero, in L’islam in Sicilia: un giardino tra due civiltà, catalogo della mostra, Gibellina (TP) -Baglio Di Stefano 30 marzo – 9 maggio 2012, Sezione Etnoantropologica – Migrazioni, a cura di Giuseppe Ajello e Antonino Cusumano, p. 62
[10] Si veda Di Franco C., op. cit.