Storia di una fotografa ritrovata
di Valeria Sanfilippo (Docente di Storia dell’arte)
C’è qualcosa di davvero speciale in questa storia. La mostra che da poco è stata inaugurata nella sede espositiva di Palazzo Valle della fondazione Puglisi Cosentino ce la racconta, come un premio speciale alla nostra città che la ospita e a tutti coloro che visitandola non potranno fare a meno di apprezzarne la lieve poesia. 120 fotografie, scattate tra il 1950 e il 1970, scandiscono un percorso di vita, quello della tata-bambinaia Vivian Maier, destinato a restare per sempre anonimo se un caso del destino non le avesse concesso un’inaspettata rivalsa. Lei non ha potuto neanche immaginare di vedere i suoi scatti in mostra, così come oggi noi possiamo ammirarli. Il merito è tutto di un giovane scrittore, John Maloof che, dovendosi documentare sulla storia della città di Chicago, comprò ad un’asta fallimentare un box-deposito, con la speranza di recuperare materiale utile per i propri studi. Proprio in quel box la Maier aveva conservato tutto il materiale fotografico raccolto lungo tutta la sua vita, un archivio di stampe, centinaia di rullini non ancora sviluppati e qualche video 8, che accesero immediatamente la curiosità e l’intuito di Maloof . Era il 2007. Vivian Maier morirà di lì a poco, nel 2009, malata e ignara di tutto, ormai incapace di partecipare a questa piega nuova del suo destino. Il suo scopritore invece da allora non smise di dedicarsi a lei, consapevole di aver trovato un archivio fotografico di potente valore che svelava l’occhio e l’anima di una grande artista.
Ma chi era dunque Vivian Maier? Inutile scavare sulle vicende della sua esistenza, così poco sappiamo di lei – nè potrebbe essere altrimenti- nessuna notorietà, anzi: la sua vita scorre invisibile nel più comune anonimato, una donna senza famiglia, nè marito, nè figli, ad accompagnare la vita di altri, una donna sola a far da governante a diverse generazioni di marmocchi della società bene, tra New York e Chicago. Chi l’ha conosciuta riferisce su di lei opinioni contrastanti: alcuni la descrivono come una donna attenta e dolce, altri come una donna dai modi strani, addirittura cattivi, anche nei confronti degli stessi bambini che accudiva. Era di aspetto austero, alta, magra, severa nell’espressione, e vestiva sobriamente, sempre con un grande cappello sulla testa, una macchina fotografica al collo. Sono i suoi scatti dunque a raccontarci delicatamente di lei. Ed ecco, con lo sguardo sempre basso dentro il pozzetto della sua inseparabile Hasselblad (la migliore macchina fotografica compatta di tutti i tempi), la Maier ci fa scoprire un mondo, quello della strada, teatro stupefacente di infinite storie, che in maniera quasi ossessiva lei non si stancava mai di cercare e immortalare.
La strada era la sua unica grande fonte di ispirazione. Tanti bambini tra i suoi scatti, sembra quasi ovvio visto il lavoro che faceva. Tante belle donne, vestite con eleganza, all’uscita da una serata di teatro o da un concerto. Tanti sofferenti, emarginati, uomini e donne, umanità abbandonata e dimenticata in un angolo senza storia. E poi la città, le geometrie, le vetrine, le luci. Con la luce i suoi riflessi, e riflessi e riflessi.
Ecco quello che sembra cercasse e amasse più di ogni altra cosa, i riflessi delle cose, evanescente immagine della vita che passa. Ogni superficie specchiante poteva andar bene. C’è da restare incantati davanti alla semplicità solo in apparenza ingenua del suo occhio fotografico! E incantati restiamo davanti ai suoi tanti autoritratti, realizzati “quasi per caso”, un’ombra che sagoma sul prato la sua figura, uno specchio che ripete la sua immagine, tante e tante volte, come se fosse un gioco, giocare con la vita per dire: ecco ci sono, ecco sono qua, ti sei accorta di me? Viene in mente il solitario Vincent van Gogh, morto anche lui senza alcun riconoscimento, lui sempre col pennello in mano, sempre a cercare per le strade, attraverso le cose, nei suoi stessi autoritratti, il senso di una vita deludente, il senso di un affetto, il bisogno di una tenerezza e di quella partecipazione alla vita dalla quale con dolore ci si sente esclusi.
Nella selezione di fotografie presentate in mostra, tutte sorprendenti per ricerca compositiva, per studio della luce, per punto di vista e poetica osservazione della realtà, tutte ovviamente senza titolo e altre indicazioni visto la mancanza di qualsiasi riferimento da parte dell’autrice, ce ne sono alcune che lasciano un segno particolare. Lasciamo al visitatore il gusto di scoprirle, uno dopo l’altra, tra quelle in bianco e nero e quelle più recenti, a colori, bellissime, scattate con la più moderna Leica.
Tra tutte però ce n’è una di foto che ci piace segnalare, è quella unica foto in cui lei ci regala un sorriso, mentre coglie la sua immagine riflessa per caso su uno specchio per strada.
Così nello stesso istante, nello stesso sguardo, non possiamo anche noi non ricambiare quel sorriso e dirle grazie, oltre i confini del tempo.
Una magia da non perdere!
Vivian Maier. Una fotografa ritrovata.
A cura di Anne Morin e Alessandra Mauro.
Fondazione Puglisi Cosentino, via Vittorio Emanuele II, 122 – Catania
Fino al 18 febbraio 2018
**Fotografie dell’autrice.
© Vivian Maier/Maloof Collection