Adagio andante riflessivo

di Daniela Vasta
(Docente di Storia dell’arte contemporanea, Università di Catania)

La mostra Stand-by (inaugurata lo scorso 16 giugno presso l’androne centrale dell’ospedale ARNAS Garibaldi di Catania, N.d.R.) presenta due brevi serie fotografiche apparentemente disgiunte, ma che in realtà raccontano due storie parallele le cui parole si intrecciano continuamente, in una dinamica speculare.

Questa mostra è una mostra sul tempo. Quel tempo denso, vischioso, lentissimo di chi è costretto a sospendere, anche solo per poco, il ritmo scorrevole della vita impegnata. Il tempo di chi ricalendarizza la propria esistenza, modifica l’ordine delle priorità, accende un riflettore su quello che è veramente essenziale.

Se il corpo è una struttura liminale, di confine, c’è un interno e un esterno, c’è l’impressione che la realtà lascia su di noi e il modo in cui noi leggiamo\decifriamo la realtà. Il corpo è barriera permeabile e la sua permeabilità non è mai percepita così chiaramente come nella precarietà della malattia. La sospensione di quella velocità di vita, di quel consumo di tempo in cui normalmente ci si ritrova, costringe alla sosta forzata e a puntare l’obiettivo sul proprio corpo e sulla sua vulnerabilità. Il centro si trasporta in una camera di sé che si era dimenticata e che ora viene messa a fuoco. Lo sguardo si fa introflesso, centripeto, acquista un’improvvisa profondità di campo. E uso non a caso il campo semantico della fotografia.

     

Gli occhi esplorano il mondo in modalità nuova, scrutano, passano in rassegna, selezionano. Dettagli secondari, apparentemente insignificanti, vengono prescelti e salvati: oggetti quotidiani, piccole cose che stanno nella casa o nella città, vengono prelevati e isolati, e decantano nell’immagine fotografica. I particolari di insolite nature morte, il cui intero non è dato vedere, diventano metafore della vita fragile. Effetto enfatizzato dal processo di sottrazione di definizione cui vengono sottoposte le fotografie, la cui texture è inoltre trattata in modo da divenire scabra, come graffiata.

E poi ci sono quei volti-busti anonimi in progressiva dissolvenza, presenze reali o labili riflessi – non ci è dato capire immediatamente, perché la loro ricezione percettiva è ambigua – che di nuovo ragionano sulla dinamica interno\esterno, Io\Mondo. Il corpo artificiale del manichino apre molteplici suggestioni interpretative: è il corpo oggettualizzato che la chirurgia vìola, esplora, ferisce; è immagine eloquente dell’isolamento e della solitudine che caratterizzano la condizione dello stand-by; è un individuo talmente poco caratterizzato nelle sue peculiarità fisiognomiche da diventare metafora di tutti gli individui, dell’umanità, dell’identità precaria che si sperimenta nella fragilità.

Lucia Sapienza ha già lavorato in passato sulla figura del manichino, ha riflettuto lungamente e da altri punti di vista sul corpo femminile e sulla esposizione dell’intimo, come recita il titolo di un progetto elaborato qualche anno fa. In quella occasione Lamberto Pignotti, maestro della Poesia Visiva, aveva giustamente sottolineato come l’artista fosse riuscita a rendere evidente un tratto significativo della cultura contemporanea, quel meccanismo perverso secondo cui il corpo diventa «una magnifica sineddoche che funziona alla stregua del culto di una reliquia, un’integrità perduta ma reale, una totalità perduta ma ideale». Ora, con attitudine e intenti totalmente diversi, Sapienza riutilizza questi soggetti e li sottopone a una completa risignificazione emotiva.

Alcune immagini vengono proposte su supporti trasparenti, che continuamente interagiscono con la luce del giorno e che quindi vengono inserite in modo molto visibile in una temporalità; la definitezza delle immagini ritratte e la tessitura cromatica mutano a seconda delle ore del giorno, indossano la luce nelle sue varie intensità. Impression, soleil levant

     

Il tempo oggettivo non esiste. L’idea bergsoniana del tempo come durata interiore ha eliminato, agli albori dell’età contemporanea, la presunzione positivista di un tempo uniforme, misurabile, certo. Il tempo è la durata che il nostro sguardo conferisce alle cose, gli “occhiali” che indossiamo per vedere la realtà. Il tempo di chi attraversa la fragilità della malattia è un tempo che si modella tutto intorno a sé: alle visite in agenda, alle operazioni da affrontare, ai responsi da ascoltare. Il tempo dell’attesa che sembra eterna, dilatata all’infinito; il tempo liberato e precipitoso delle notizie buone; il tempo retrospettivo del rewind che è la tentazione continua di riepilogare e ripercorrere il passato, di contaminarne il presente, in un avanti e indietro che annulla le ferree cronologie.

Per raccontarsi  e raccontare, ancora una volta Lucia Sapienza sceglie uno spazio che esula dai luoghi codificati del sistema artistico e si rivolge a un pubblico ben più vasto di quello che frequenta gli eventi, più o meno mondani, dell’arte contemporanea; non ha paura – come ha già fatto nel 2016 con il progetto Aleph – di sconfinare nel territorio di professionalità altre rispetto al manipolo degli “addetti ai lavori”, né di confrontarsi con letture che arrivino da voci apparentemente distanti dal mondo patinato dei vernissage. Ancora una volta l’artista  ci parla, attraverso immagini enigmatiche e accattivanti, di dolore, di speranza, di paura e di audacia, di come l’abisso della fragilità possa dischiudere inattese risorse di vita.

Fotografie di Lucia Sapienza, foto digitale e punta secca.